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Il recupero dell'olotipo di Squinabol | |
a) II restauro Il reperto del Rio Magnone era costituito da diverse parti ossee affioranti su un grosso blocco di rudite ben cementata, del peso di circa 200 kg., che era stato imbragato lateralmente con due fasce metalliche . La messa in evidenza dei reperti era stato fatta solo parzialmente ed è stato chiaro che era necessario procedere all'isolamento dei singoli pezzi e al loro consolidamento e restauro, allo scopo sia di evidenziare la morfologia delle parti non visibili sia di prevenire il degrado irreversibile del reperto stesso. Questo lavoro è stato eseguito presso il laboratorio del Museo di Paleontologia dell'Università di Firenze. |
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II blocco inglobante i reperti prima dell'intervento di restauro. | |
Prima di procedere all'isolamento delle parti ossee affioranti si è dovuto intervenire con un'operazione di consolidamento delle stesse, che presentavano uno stato di alterazione in alcuni punti già abbastanza avanzato. Solo dopo il consolidamento con Mowilith è iniziata l'operazione di messa in evidenza dalla matrice inglobante, eseguita utilizzando scalpelli a punta molto sottile. Al termine di questa fase del restauro sono state portate alla luce anche parti prima non visibili, quali l'arcata zigomatica sinistra ed alcune falangi.
Messe in evidenza le ossa in modo adeguato, su tutta la superficie del blocco è stata spennellata una pellicola di gomma al silicone tipo Rhone Poulenc 1600 vulcanizzabile a freddo, ripetendo l'operazione più volte, in modo da ottenere uno strato più o meno uniforme dello spessore di almeno 2-4 mm. Su questa matrice in gomma dopo circa 24 ore, a vulcanizzazione avvenuta, è stato costruito un supporto rigido, ma leggero, con tasselli di legno. In seguito è stata effettuata una colata di poliuretano espanso, che ha inglobato anche i suddetti tasselli, fornendo così un supporto per la matrice.
Successivamente il negativo in gomma su poliuretano è stato staccato dall'originale e su di esso è stata eseguita una copia del reperto, ottenuta spennellando sulla matrice resina epossidica tipo Araldite SV 410. Nelle aree che riproducevano le superfici dentarie è stato invece colato poliuretano rigido tipo Aroflow 514. Si è poi reso il calco, così ottenuto, il più possibile simile all'originale utilizzando pigmenti opportuni. |
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Una volta assicurata, tramite replica, la riproduzione del reperto nel suo aspetto originale, si è passati alla fase di isolamento e distacco definitivo delle parti ossee dal sedimento, sempre utilizzando scalpelli a punta sottile. Le ossa estratte sono poi state ulteriormente consolidate con Mowilith 50. Completata questa operazione si è potuto così avere la visione completa delle ossa originariamente inglobate nel blocco di rudite: cranio completo, un canino destro, un canino sinistro, mandibola, bacino posteriore destro e bacino posteriore sinistro, tre vertebre dorsali, una co-stola anteriore, quattro falangi.
Inoltre si è potuto ricostruire la parte mancante del bacino utilizzando per la forma l'impronta lasciata dall'osso nel sedimento. Per questa operazione è stato usato un mastice da restauro composto da cera, paraffina, pece greca, gesso e biossido di zinco miscelati a caldo. Infine sono state effettuate copie del cranio e della mandibola utilizzando resina epossidica e poliuretano rigido. In questo caso il negativo in gomma è stato ottenuto non per spennellatura, ma con la tecnica della colata.
Con tutti questi interventi si è ottenuto il duplice risultato di avere a disposizione sia la copia fedele del reperto nelle condizioni originali con le parti ossee affioranti dalla matrice, sia le ossa isolate. L'esemplare fossile è così reso disponibile contemporaneamente per fini scientifici e fini espositivi. Inoltre la presenza di matrici in gomma assicura la possibilità di effettuare duplicati per eventuali scambi con altre istituzioni museali. Il Museo di Paleontologia dell'Università di Firenze, per esempio, ha allestito una vetrina utilizzando duplicati del reperto savonese. |
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b) La ricostruzione I resti fossili del Rio Magnone sono stati di grande utilità per proporre una ricostruzione anatomica accettabile di Anthracotherium gastaldii Squinabol. In effetti gli elementi scheletrici disponibili per costituire una base abbastanza sicura per lo studio anatomico non erano inizialmente molti ed è stato pertanto di grande aiuto avere potuto studiare le parti ossee estratte dal sedimento, soprattutto il cranio e il bacino, anche se notevolmente deformati. II problema fondamentale era costituito dalla mancanza di resti fossili di diverse parti dello scheletro post-craniale. Si è quindi utilizzata come base una raffigurazione di A. magnimi tratta da Kowalewsky (1873), operando opportune modifiche di alcuni tratti anatomici, dato che sia le dimensioni sia certi caratteri scheletrici delle due specie sono diversi. Inoltre lo studio attento della raffigurazione di Kowalewsky (1873) ha evidenziato che la posizione dello scheletro non era corretta, per cui sono state modificate la curvatura della colonna vertebrale, la posizione del bacino e quella degli arti posteriori.
Una volta terminata l'impostazione dello scheletro si è passati alla ricostruzione della muscolatura, che si è rivelata relativamente semplice. Infine per quanto concerne il tegumento e la morfologia generale sono stati presi in considerazione, come riferimento, i principali caratteri dell'ippopotamo africano attuale, animale che, con ogni probabilità, conduce un tipo di vita simile a quello dell'estinto Anthracotherium. Dai dati esistenti in letteratura (Lorenz, 1968) sembra infatti plausibile che l'ambiente di vita degli Antracoteri di Cadibona fosse una foresta subtropicale di tipo paludoso. Sulla base di questa ipotesi è stata quindi proposta anche una ricostruzione del paleohabitat mettendola a confronto con la vecchia ricostruzione di Issel del 1892.
Conclusioni L'operazione di recupero e restauro dei reperti di Anthracotherium del Museo di Savona è stata portata a termine con risultati interessanti anche per quanto riguarda gli aspetti strettamentescientifici, ma la si può considerare solo un primo anche se fondamentale passo verso la loro effettiva valorizzazione. Questi reperti possono costituire infatti uno dei punti di partenza per fare risorgere il Museo di Storia Naturale di Savona come Museo che documenti la storia del territorio savonese partendo dalla sua evoluzione geologica (Bottaro et al., 1997). Inoltre al reperto del Rio Magnone potrebbe essere collegata la valorizzazione della vecchia area mineraria di Cadibona, in modo che ad una struttura espositiva a Savona si unisca la proposta di un percorso sul terreno. Attualmente il sito della miniera è in grave abbandono. Gli accessi sono stati chiusi e la vegetazione ha preso il sopravvento mascherandoli totalmente. Sull'esempio di altre esperienze italiane (Museo Provinciale delle Miniere di Vipiteno-Ridanna-Predoi in Alto Adige; Museo dell'Ardesia di Cicagna, Val Fontanabuona, Liguria orientale), si potrebbe creare un itinerario naturalistico, che, partendo dal piazzale antistante "Case della Miniera", porti ai vari accessi illustrando, con appositi cartelli, l'assetto geologico della zona. Inoltre la parte ancora recuperabile degli edifici di "Case della Miniera" potrebbe essere utilizzata per costruire un Centro Visitatori con esposizioni permanenti riguardanti soprattutto la storia e le tecniche di coltivazione del giacimento di lignite. A questo proposito sarebbe ancora possibile raccogliere testimonianze utili da anziani residenti di Cadibona, che hanno lavorato nella miniera negli ultimi anni della sua attività. |
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